Sandrino CARREA. Una QUERCIA SECOLARE
Nato a Gavi (AL) il 14 agosto 1924 - Morto a Cassano Spinola (AL) il 13 gennaio 2013
Cento anni fa, il 14 agosto 1924, nasceva a Gavi, terra di Cortese, Andrea Carrea, per tutti Sandrino, l’unico diminutivo che potesse vestire quel sacramento di corridore.
A sentire Ettore Milano, l’altro “angelo di Coppi” (Presidente per qualche anno del sodalizio cui facciamo oarte) Andrea Carrea era «incrociato con l’orso». Tanto per dire di che pasta fosse fatto. Lo aveva dimostrato anche, e soprattutto, prima di diventare il ciclista che in sella non moriva mai. Fatto prigioniero dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, Carrea finì a Buchenwald, in un campo di lavoro. Sopravvisse. E sopravvisse, nell’inverno del 1945, a una marcia della morte, uno di quei micidiali trasferimenti a piedi, spesso nella neve, a cui i nazisti, ormai incalzati dall’avanzare delle truppe alleate, sottoponevano i prigionieri per sfinirli e decimarli. Dei tremila che vennero spostati da Buchenwald restarono vivi in ottocento: tra questi Sandrino Carrea, che al ritorno a casa, miracolato da chissà chi, o meglio salvato dalla sua tempra, pesava quaranta chili, molto meno della metà di quando era partito.
A Sandrino Carrea, con la maglia della Bianchi, o quella verde a bande bianche e rosse della nazionale italiana al Tour de France, toccava il lavoro sporco in salita. Quando la corsa si faceva dura, il duro Sandrino iniziava a pedalare. Si metteva in testa al gruppo e Coppi lo apostrofava dalla pancia del gruppo: “Sandrino, cosa fai? Va’ piano, per la madonna!”. In realtà voleva dire l’esatto contrario: Sandrino aumentava l’andatura e tirava il collo all’intero gruppo, tranne che a Coppi, ovviamente.
Così avvenne il 4 luglio del 1952, all’arrivo del Tour all’Alpe d’Huez, quando Carrea si mise in testa a fare l’andatura, nonostante vestisse la maglia gialla. L’aveva indossata il giorno prima, a Losanna, vergognandosi. E chiedendosi che cosa avrebbe pensato il suo capitano. Dopo la premiazione, in lacrime, gli chiese addirittura scusa. Coppi lo prese in giro: gli disse di sorridere e di non pensarci, che l’indomani tutto sarebbe andato a posto. E infatti sui tornanti dell’Alpe d’Huez che il Tour affrontava per la prima volta, Carrea si mise davanti a tirare come un trattore sgranando il gruppo, fino a quando non partì il Campionissimo, lasciando tutti quanti come quelli della mascherpa. Fu lì che Coppi vinse il suo secondo Tour.
L’ anno dopo, al Giro, si ripropose il medesimo scenario. 1°giugno 1953, tappa Bolzano-Bormio, passaggio, anche in quel caso inedito, sul passo dello Stelvio; Coppi distanziato in classifica generale da Hugo Koblet e apparentemente rassegnato al secondo posto. Ma non appena iniziò la corsa, risalendo la Val Venosta, cominciò la processione di gregari che andavano dire a Fausto “guarda che Koblet suda, guarda che Koblet continua a bere…”. Quando attaccarono i primi tornanti del passo in testa erano rimasti in pochi, solo i migliori. Davanti, guarda caso, c’era Carrea, a dettare il passo, e Coppi decise allora di bluffare: “Non tirare, pappagallo!”. Messaggio in codice. Sandrino pestò sui pedali fino a esaurire le sue inesauribili forze. Poi partì Defilippis e Koblet abboccò. Fece l’errore di andare a riprenderlo e per lui fu la fine. Quando Coppi lo superò a doppia velocità, Koblet pensò che fosse una motocicletta.
Raccontavano, Milano e Carrea, che loro, come del resto molti altri gregari, potevano dire di conoscere le fontane di tutt’Italia: sapevano a memoria dietro a quale curva, in fondo a quale paese, in cima a quale passo potevano andare a rifornirsi. Lo stesso valeva per il cibo: portatori di panini al prosciutto, al pollo o alla marmellata, e poi di arance, banane.
Milano e Carrea erano di Coppi le api operaie, che, alla necessità, sapevano assolvere anche ad altri bisogni primari, e meno dicibili, del loro capitano. In caso di impellenze fisiologiche, il Campionissimo talvolta preferiva non scendere di sella per appartarsi dietro una siepe. E allora ecco che i due gregari, ai lati, lo sorreggevano e lo spingevano, e talvolta lo aiutavano, con discrezione o abnegazione, nelle manovre più complicate. Carrea racconta che una volta fu necessario recuperare dei giornali per «portare a termine il servizio». Siccome non se ne trovavano, andò a chiederli direttamente al direttore della Gazzetta, Giuseppe Ambrosini, che si permise una battuta: “Sandrino, cosa te ne fai, li vai a vendere?”. Carrea grugnì qualcosa e accelerò la pedalata.
Sandrino a ottantotto anni, ancora dritto come una quercia secolare e forte come un orso, coltivava cachi nel suo giardino e andava a caccia. Ci era andato anche il giorno prima di morire, il 13 gennaio 2013, nel letto della sua casa di Cassano Spinola. Ora è sepolto nel cimitero del paese, non distante dalla tomba dell’altro Campionissimo, Costante Girardengo.
Chi volesse sapere vita e miracoli ciclistici di Andrea Carrea, detto Sandrino, due libri, un racconto e una canzone. I libri sono quelli di Luciana Rota, "Sandrino Carrea. Un uomo squadra sulla rotta italo-francese" (Museo del Ciclismo Ghisallo 2019), e di Marco Pastonesi, "Gli angeli di Coppi. Il Campionissimo raccontato da chi ci correva insieme, contro e, soprattutto, dietro" (Ediciclo Editore, 1999). Il racconto, Oltraggio, è di Giovanni Battistuzzi e lo trovate in "Alfabeto Fausto Coppi. 99 racconti" (Ediciclo Editore, 2019). e nfine la canzone scritta da Gianni Rossi e l’ha messa in musica Donatello e s’intitola "Da grande voglio essere Carrea"